ADHD e disturbi dell'attenzione in adulti e bambini: sintomi, cause e trattamento

In Italia circa il 4% della popolazione presenta l’ADHD, un dato che equivale a 1-2 milioni di persone, molte delle quali senza diagnosi. Questo non perché l’ADHD (disturbo da deficit di attenzione/iperattività, spesso chiamato semplicemente disturbo iperattività) sia trascurabile, ma perché spesso viene frainteso (fonte: AIFA).
Un bambino molto vivace o un adulto disorganizzato non sono automaticamente “colpevoli” di scarso impegno: potrebbero manifestare i segni di un vero disturbo del neurosviluppo. In altre parole, l’ADHD è una condizione reale, che può influenzare profondamente la qualità di vita di chi ne soffre, ma con la giusta comprensione e supporto può essere affrontata efficacemente.
ADHD: significato e definizione
ADHD è l’acronimo di Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder, in italiano disturbo da deficit di attenzione/iperattività. Si tratta di un disturbo del neurosviluppo che esordisce nell’infanzia e può persistere nell’età adulta. I sintomi principali riguardano disattenzione, iperattività e impulsività, presenti con intensità e combinazioni variabili. In pratica, chi è affetto da ADHD si mostra facilmente distratto, ha difficoltà a portare a termine attività e tende all’iperattività motoria e all’azione impulsiva. Questo disturbo rientra tra i disturbi dell’attenzione e iperattività riconosciuti dalla neuropsichiatria infantile, e non va confuso con un semplice temperamento vivace: è una condizione neurologica legata a differenze nei meccanismi cerebrali che regolano l’attenzione, la motivazione e il controllo dei comportamenti.
Benché tradizionalmente l’ADHD sia associato all’età evolutiva, oggi sappiamo che colpisce sia bambini che adulti. La condizione tipicamente emerge nei primi anni di vita, ma non scompare necessariamente con la crescita: almeno il 50% dei bambini con ADHD continua ad avere sintomi significativi in età adulta. Si parla infatti di ADHD adulti per riferirsi al quadro clinico negli adulti, che può manifestarsi in forme diverse rispetto all’infanzia. Ad esempio, un adulto con ADHD spesso sperimenta un’irrequietezza interna e una marcata disorganizzazione, più che l’iperattività motoria evidente, tipica del bambino. In sintesi, l’ADHD è un disturbo “a spettro ampio” per età e sintomatologia, il cui significato clinico consiste proprio in questa triade di sintomi (deficit di attenzione, iperattività, impulsività) persistenti e più intensi rispetto a quanto atteso per lo sviluppo (fonte: ISS).
Impatto dell’ADHD sulla qualità della vita
L’ADHD può avere un impatto significativo su molte aree della vita quotidiana di una persona. In età scolare, ad esempio, può compromettere il rendimento accademico e la vita sociale: il bambino con ADHD fatica a mantenere l’attenzione in classe, si distrae facilmente e spesso disturba (involontariamente) i compagni, rischiando incomprensioni con insegnanti e coetanei. Nell’adulto, i sintomi di disattenzione e impulsività si traducono spesso in difficoltà lavorative e relazioni complesse, con problemi nel concentrarsi sul lavoro, gestire le scadenze o mantenere stabile un impiego.
In molti casi l’ADHD si accompagna ad altri disturbi che ne aggravano l’impatto: nei bambini sono frequenti i disturbi d’ansia, i disturbi del sonno o dell’apprendimento, mentre negli adulti possono emergere anche depressione e abuso di sostanze. Questa condizione è correlata a performance accademiche e lavorative inferiori alla media, con possibili ripercussioni economiche nel lungo termine. Chi convive con l’ADHD può inoltre sperimentare sentimenti di frustrazione, senso di colpa e bassa autostima a causa delle difficoltà incontrate quotidianamente. Purtroppo persiste uno stigma culturale attorno all’ADHD: il disturbo viene talvolta banalizzato come “maleducazione” o “pigrizia”, portando a incomprensioni e discriminazioni, ad esempio in ambito lavorativo. Tutto ciò rende ancora più gravoso il vissuto delle persone con ADHD, creando un circolo di insuccessi e incomprensioni che può minare ulteriormente la qualità di vita. Di positivo c’è che una maggiore consapevolezza sta iniziando a diffondersi: riconoscere che si tratta di un disturbo reale è il primo passo per rompere questo circolo e intervenire con successo (fonte: Univadis).
Sintomi principali dell’ADHD
I sintomi chiave dell’ADHD – disattenzione, iperattività, impulsività – si manifestano in modi diversi e con gravità variabile da persona a persona. Per chiarezza espositiva, possiamo distinguerli in sintomi fisici, comportamentali ed emotivi, sebbene spesso questi aspetti si sovrappongano. Di seguito i principali sintomi ADHD divisi per categoria:
Sintomi fisici (iperattività motoria)
- Irrequietezza costante: difficoltà a stare fermi e seduti a lungo. Il bambino con ADHD spesso si alza dal banco in classe o si dimena sulla sedia, muovendo mani e piedi di continuo.
- Movimento e parlato eccessivi: tendenza a correre, saltare o arrampicarsi in situazioni inappropriate, oppure a parlare ininterrottamente senza accorgersi del contesto. Un adulto iperattivo può non correre, ma riferisce di sentirsi “azionato da un motore” interno, con difficoltà a rilassarsi.
- Difficoltà a giocare o svolgere attività in modo tranquillo: il bambino fatica a impegnarsi in attività calme; anche nei momenti di svago tende a essere rumoroso e in movimento continuo.
Sintomi comportamentali (disattenzione e impulsività)
- Distraibilità e difficoltà di concentrazione: fatica a mantenere l’attenzione su un compito o una conversazione, anche se importante. Spesso la persona con ADHD non segue le istruzioni fino in fondo o commette errori di distrazione (dimentica dettagli, perde il filo).
- Disorganizzazione e smemoratezza: difficoltà a organizzare le attività e a gestire il tempo. Bambini e adulti con ADHD perdono frequentemente oggetti (materiale scolastico, chiavi, telefono) e dimenticano appuntamenti o scadenze. Portare a termine progetti complessi è una sfida, spesso c’è tendenza a procrastinare.
- Impulsività nei comportamenti: agire o parlare senza pensare alle conseguenze. Ad esempio, rispondere prima che l’altra persona abbia finito di parlare o interrompere continuamente chi sta parlando, perché è difficile trattenersi. Questa impulsività si vede anche nell’incapacità di aspettare il proprio turno (in fila, nei giochi di gruppo).
- Azioni avventate o rischiose: prendere decisioni di getto, spesso poco ponderate. Un esempio tipico è fare acquisti impulsivi non sostenibili economicamente, salvo poi pentirsene. Negli adulti ciò può includere anche cambiare spesso lavoro o hobby in cerca di qualcosa di più stimolante, oppure guidare in modo spericolato per impazienza.
Sintomi emotivi (autoregolazione delle emozioni)
- Emotività intensa e sbalzi d’umore: le persone con ADHD spesso provano emozioni in modo amplificato e possono passare rapidamente dalla gioia alla frustrazione. Piccole contrarietà possono scatenare forte irritazione o tristezza, indicando una bassa tolleranza alla frustrazione.
- Impulsività emotiva: difficoltà nel regolare e modulare le proprie reazioni emotive. Possono verificarsi scoppi di rabbia improvvisi o crisi di pianto apparentemente “esagerate” rispetto al trigger, proprio perché l’emozione prende il sopravvento prima che la persona riesca a controllarla.
- Problemi di autostima: a forza di ricevere critiche per la disattenzione o l’irrequietezza, bambini e adulti con ADHD possono sviluppare un senso di inadeguatezza. Si sentono “incapaci” o “problematici” e tendono a colpevolizzarsi per i propri errori. Questo può portarli ad evitare nuove sfide per paura di fallire, alimentando un circolo negativo sul piano emotivo.
(Da notare che i sintomi devono essere presenti in misura marcata per almeno 6 mesi e in più contesti di vita per parlare di ADHD clinicamente significativo. È normale infatti che tutti, specialmente i bambini, siano ogni tanto distratti o iperattivi: nell’ADHD, però, queste manifestazioni sono molto più frequenti e intense della norma.)
Cause e fattori di rischio dell’ADHD
Le cause esatte dell’ADHD non sono ancora del tutto chiare e univoche, ma le ricerche indicano una forte componente genetica. Studi su familiari mostrano che il disturbo tende a ricorrere nelle famiglie: si stima che circa il 74% dei casi di ADHD abbia una base ereditaria. In altre parole, la presenza di ADHD nei parenti stretti aumenta significativamente la probabilità che compaia anche nel bambino. Sono stati infatti identificati alcuni geni associati al deficit di attenzione – ad esempio geni coinvolti nella produzione e regolazione della dopamina, un neurotrasmettitore chiave per i processi di concentrazione e controllo degli impulsi.
Accanto alla genetica, vi sono differenze neurobiologiche osservate nelle persone con ADHD. Tecniche di neuroimaging hanno rilevato che, in media, alcuni circuiti cerebrali legati all’attenzione e all’autocontrollo presentano un’attività o uno sviluppo atipici. Ad esempio, nei bambini con ADHD è stata osservata una leggera riduzione di volume in aree come la corteccia prefrontale (coinvolta nell’attenzione) e altre regioni cerebrali connesse. Inoltre, studi indicano possibili alterazioni nei sistemi neurochimici: si ipotizza un deficit nella trasmissione dopaminergica e noradrenergica, il che significa che il cervello di chi ha l’ADHD gestisce in modo diverso quei segnali chimici che regolano focus e inibizione delle risposte.
Anche i fattori ambientali rivestono un ruolo. L’ADHD non è causato dallo stile educativo dei genitori (un mito da sfatare), ma alcune condizioni possono aumentare il rischio di sviluppare il disturbo. Ad esempio, l’esposizione ad alcool o fumo durante la gravidanza è stata associata a una maggiore probabilità di ADHD nel bambino. Allo stesso modo, una nascita prematura o sofferenze neonatali possono costituire fattori predisponenti. Persino certi stimoli ambientali precoci sono sotto indagine: uno studio americano pubblicato sulla rivista Pediatrics ha segnalato che trascorrere molte ore davanti alla TV nei primi 6 anni di vita può favorire lo sviluppo di problemi attentivi e iperattività più tardi. In questo caso non sarebbero i contenuti televisivi in sé i responsabili, ma il bombardamento di immagini rapide e luci che potrebbe alterare lo sviluppo neurocognitivo del bambino. Va detto che questi risultati necessitano di ulteriori conferme, ma sottolineano l’importanza di limitare l’esposizione precoce a schermi e stimoli elettronici intensi.
In sintesi, l’ADHD sembra derivare da un intreccio di predisposizione genetica (vulnerabilità ereditaria), variazioni neurobiologiche individuali e influenze ambientali (dall’ambiente prenatale a quello dei primi anni di vita). Non esiste una singola causa scatenante nota – è quindi più corretto parlare di fattori di rischio. Comprendere questi fattori aiuta sia a sfatare luoghi comuni (ad esempio, che l’ADHD sia colpa di “troppo zucchero” o di “cattiva educazione”) sia a orientare la prevenzione, promuovendo uno stile di vita sano fin dalla gravidanza e dalla prima infanzia.
Quando chiedere aiuto
Di fronte a un bambino particolarmente distratto o iperattivo – o se noi stessi, da adulti, ci riconosciamo in molti sintomi – quando è il caso di rivolgersi a un professionista? Innanzitutto, se i comportamenti persistono da oltre 6 mesi e in diversi contesti (casa, scuola, lavoro) in forma marcata, è opportuno approfondire la situazione. In altre parole, se un bambino mostra costantemente disattenzione, iperattività o impulsività ben al di sopra di ciò che ci si aspetterebbe per la sua età, sia in classe che durante la vita familiare, vale la pena chiedere una valutazione specialistica. Indicativamente, criteri come la presenza di almeno 6 su 9 sintomi tipici di disattenzione e/o iperattività-impulsività (come da manuale diagnostico DSM-5) vengono utilizzati per porre diagnosi di ADHD. Ma al di là dei numeri, conta l’impatto: se il bambino (o l’adulto) soffre per queste difficoltà – ha scarso rendimento scolastico, problemi di comportamento, difficoltà a mantenere amicizie, oppure l’adulto perde il lavoro o fatica nelle relazioni – allora non bisogna esitare a cercare aiuto.
Un altro elemento da considerare è l’età di esordio: l’ADHD esordisce in età evolutiva (di solito prima dei 12 anni). Dunque, per diagnosticare un adulto, lo specialista indagherà se quei sintomi erano presenti fin dall’infanzia, magari in forma meno riconosciuta. Spesso l’ADHD nelle ragazze viene sottovalutato, perché tende a manifestarsi con meno iperattività motoria e più disattenzione “silenziosa” (sognatrici, svagate). Questo fa sì che molte donne con ADHD ricevano diagnosi solo in età adulta. Perciò, se sospettiamo un ADHD “nascosto” dietro un percorso di vita difficoltoso (scolastico o lavorativo), è bene consultare uno specialista senza timore di “esagerare”.
Ricordiamo che chiedere una valutazione non equivale a etichettare qualcuno: significa semplicemente permettere a professionisti (neuropsichiatri infantili, psicologi clinici o psichiatri) di capire meglio la situazione. Prima si ottiene aiuto, prima si può intervenire. Diagnosi e intervento precoci possono prevenire anni di frustrazione, proteggendo l’autostima del bambino e fornendo all’adulto gli strumenti per riorganizzare la propria vita. In concreto, se notate segnali d’allarme – un bimbo che “non riesce proprio a stare attento” nonostante impegno, o un adulto che si sente cronicamente sopraffatto dalle sue dimenticanze – rivolgetevi a centri specializzati in disturbi dell’attenzione. Una valutazione approfondita stabilirà se si tratta effettivamente di ADHD o magari di altre condizioni (come disturbi d’ansia, difficoltà di apprendimento, ecc.) che possono mimare alcuni sintomi. In ogni caso, meglio togliersi il dubbio con un colloquio clinico, piuttosto che trascinare a lungo un malessere non compreso.
Approcci terapeutici validati e multidisciplinari
Affrontare l’ADHD richiede un approccio integrato, che consideri la complessità del disturbo. Le linee guida raccomandano un intervento multimodale, ovvero l’integrazione di più strategie terapeutiche: interventi psicologici (comportamentali e cognitivi), misure educative e, quando indicato, terapia farmacologica. Di seguito, vediamo i principali approcci di cura:
Psicoterapia e supporto psicoeducativo
La psicoterapia di elezione per l’ADHD è la terapia cognitivo-comportamentale (TCC). Questo approccio aiuta a sviluppare abilità pratiche per gestire i sintomi: ad esempio, insegna al bambino (o all’adulto) tecniche per migliorare l’attenzione, organizzare le attività in piccoli passi, controllare l’impulsività e monitorare le proprie azioni. Nei bambini, è fondamentale coinvolgere anche i genitori e la scuola. Spesso si attivano programmi di parent training, in cui ai genitori vengono insegnate strategie educative e di gestione del comportamento: rinforzo positivo, strutturazione della routine, tecniche per guidare il bambino senza ricorrere a punizioni inefficaci. Analogamente, il teacher training forma gli insegnanti a gestire in classe l’alunno con ADHD, ad esempio organizzando un ambiente con meno distrazioni e applicando sistemi di premi per incentivare l’attenzione e il rispetto delle regole. Anche molti adulti con ADHD traggono beneficio da un coaching mirato: un supporto pratico (spesso da parte di psicologi specializzati) per imparare a pianificare le giornate, usare strumenti organizzativi e adottare strategie di gestione del tempo. Infine, sia per la famiglia che per il paziente stesso, è fondamentale la psicoeducazione: capire che cos’è l’ADHD e come funziona aiuta a ridurre il senso di colpa, a vedere il disturbo in un’ottica più oggettiva e ad applicare con costanza le strategie apprese.
Supporto educativo e scolastico
In ambito educativo, l’obiettivo è aiutare il bambino/ragazzo con ADHD a esprimere il suo potenziale nonostante le difficoltà di attenzione. È utile elaborare, insieme agli specialisti e alla scuola, un Piano Didattico Personalizzato (PDP) che preveda accorgimenti specifici: ad esempio, compiti a casa calibrati, pause frequenti durante lo studio, possibilità di muoversi (nei limiti) in classe, strumenti compensativi come schemi e mappe concettuali, uso di timer per gestire le attività, ecc. Un ambiente strutturato e prevedibile – con regole chiare, routine fisse e meno ingombri/distraenti – aiuta molto il bambino con ADHD a concentrarsi e autoregolarsi. Gli insegnanti, da parte loro, devono essere parte attiva: con una formazione adeguata, possono imparare tecniche di gestione della classe inclusive, come posizionare il bambino vicino alla cattedra lontano da fonti di distrazione, frammentare i compiti lunghi in segmenti più brevi, e utilizzare rinforzi positivi frequenti per mantenere alta la motivazione. La comunicazione scuola-famiglia è fondamentale: condividere i progressi e le difficoltà permette di applicare strategie coerenti nei due ambienti. In adolescenza e nell’età adulta (università, lavoro), simili principi valgono adattati al contesto: per un adulto con ADHD, ad esempio, può essere utile suddividere i progetti lavorativi in task più piccoli, usare liste di controllo e sistemi di reminder (agenda elettronica, app) per ricordare appuntamenti e scadenze, nonché prevedere brevi pause attive durante il lavoro per scaricare la tensione. Spesso gli atenei e i luoghi di lavoro offrono misure di supporto se viene documentata la diagnosi, ad esempio tempi aggiuntivi per gli esami o una certa flessibilità organizzativa.
Terapia farmacologica
I farmaci possono rappresentare un pilastro importante nel trattamento dell’ADHD, soprattutto nei casi di sintomatologia media-grave che interferisce pesantemente con il funzionamento quotidiano. Il farmaco più utilizzato e studiato è il metilfenidato, meglio noto con il nome commerciale Ritalin®. Si tratta di uno stimolante del sistema nervoso centrale che aumenta la concentrazione di dopamina e noradrenalina nelle aree cerebrali deputate all’attenzione e al controllo inibitorio, con il risultato di migliorare la capacità di concentrazione e ridurre impulsività e iperattività. In Italia, il metilfenidato e altri stimolanti (come alcune formulazioni di anfetamine) sono prescrivibili da specialisti in centri autorizzati, seguendo protocolli ben precisi. La terapia farmacologica richiede dunque un’attenta valutazione caso per caso: generalmente si prescrive il farmaco solo se necessario, valutando il rapporto beneficio/rischio nel lungo termine. Molti genitori sono comprensibilmente preoccupati all’idea di dare uno “psicofarmaco” al figlio, ma va evidenziato che questi farmaci hanno alle spalle decenni di studi e, se utilizzati correttamente, sono considerati sicuri ed efficaci. Secondo i dati del National Institute of Health (NIH) americano, il 70-80% dei bambini con ADHD risponde positivamente ai trattamenti farmacologici (ad es. mostrando miglioramenti notevoli dell’attenzione). Gli eventuali effetti collaterali (come insonnia o calo di appetito) di solito sono gestibili modulando il dosaggio insieme al medico. È importante sottolineare che il farmaco non “guarisce” l’ADHD in senso stretto – i sintomi tendono a ripresentarsi quando il farmaco viene sospeso – ma controlla i sintomi, dando al bambino/ragazzo la possibilità di apprendere meglio e al genitore/insegnante la possibilità di lavorare sui comportamenti appropriati. Farmaco e psicoterapia, infatti, andrebbero sempre affiancati: la combinazione di intervento farmacologico e training psicologico-comportamentale è quella che garantisce i risultati migliori nei casi più impegnativi.
Strategie di supporto complementari
Oltre alle terapie standard, possono essere utili altri interventi. Molte famiglie beneficiano, ad esempio, di gruppi di supporto con altri genitori di bambini ADHD, per condividere esperienze e consigli pratici in un clima di comprensione. Nel caso in cui siano presenti altri disturbi associati (comorbidità), è importante trattare anche quelli: ad es. terapia del linguaggio per problemi di linguaggio, supporto psicomotorio per migliorare la coordinazione motoria se sono presenti goffaggine o impaccio, oppure percorsi per gestire l’ansia o la depressione che possono accompagnare l’ADHD. Infine, va ricordato che la persona con ADHD ha anche punti di forza: spesso spiccano creatività, capacità di pensiero “fuori dagli schemi”, energia e resilienza. Un buon percorso terapeutico aiuta anche a valorizzare questi aspetti positivi, in modo che il disturbo non venga vissuto solo come un “limite” ma anche come una diversa modalità di funzionamento da incanalare in modo costruttivo.
Strategie pratiche e consigli di lifestyle
Oltre ai trattamenti specialistici, esistono strategie pratiche e cambiamenti nello stile di vita quotidiano che possono aiutare chi ha l’ADHD (bambini e adulti) a gestire meglio i sintomi. Di seguito alcuni consigli – semplici ma basati su evidenze scientifiche – che possono fare la differenza:
- Ambiente strutturato e organizzazione: creare una routine quotidiana prevedibile e ridurre le fonti di distrazione aiuta a mantenere la concentrazione. È utile stabilire orari regolari per le attività (studio, pasti, sonno) e definire regole chiare in casa. Strutturare l’ambiente significa anche tenere in ordine lo spazio di lavoro o studio, minimizzando il disordine visivo. Strumenti come agende, calendari digitali e promemoria possono supportare la memoria e l’organizzazione di impegni e scadenze. Ad esempio, un adolescente potrebbe usare un’app sul telefono per ricordare i compiti, mentre un adulto può tenere un pianificatore giornaliero sulla scrivania.
- Attività fisica regolare: l’esercizio fisico ha effetti positivi dimostrati sul cervello e sul comportamento. Diversi studi hanno rilevato che praticare attività motoria in modo costante migliora l’attenzione e il controllo dell’iperattività nei bambini e ragazzi con ADHD. L’attività fisica aiuta anche a scaricare l’energia in eccesso, ridurre lo stress e favorire un sonno più regolare. Non è necessario praticare sport agonistico: anche fare una passeggiata al parco, andare in bicicletta o giocare all’aria aperta ogni giorno può apportare benefici significativi. L’importante è evitare uno stile di vita troppo sedentario: meglio alternare lo studio o il lavoro con brevi momenti di movimento (basta alzarsi e fare due passi ogni ora).
- Tecniche di rilassamento e mindfulness: gestire lo stress è fondamentale, perché l’ansia tende ad amplificare i sintomi dell’ADHD. Imparare tecniche di rilassamento può aiutare a calmare la mente e aumentare l’autocontrollo. Pratiche come la meditazione, lo yoga o anche semplici esercizi di respirazione profonda sono utili per ritrovare la concentrazione e ridurre l’impulsività emotiva. Per i bambini esistono esercizi di respirazione presentati come gioco (ad es. “gonfiare il palloncino” con la pancia); per gli adulti, app di mindfulness guidata possono essere un buon inizio. Anche dedicare solo 10-15 minuti al giorno a queste tecniche può, col tempo, migliorare significativamente la calma mentale e la capacità di affrontare le sfide quotidiane con più lucidità.
- Igiene del sonno e alimentazione equilibrata: spesso l’ADHD si associa a problemi di sonno – difficoltà ad addormentarsi o sonno inquieto – e una cattiva qualità del riposo peggiora la distraibilità e l’irritabilità durante il giorno. È quindi importante curare la sleep routine: andare a letto e alzarsi a orari regolari, creare un ambiente buio e silenzioso, limitare l’uso di schermi luminosi prima di dormire (la luce blu degli smartphone interferisce col sonno) e magari introdurre piccoli rituali rilassanti serali (un bagno caldo, leggere un libro). Sul fronte alimentare, non esiste una “dieta miracolosa” per l’ADHD, ma una dieta bilanciata può sostenere le funzioni cognitive. Alcuni studi suggeriscono che acidi grassi omega-3 (presenti ad es. nel pesce, nelle noci, nei semi di lino) possano giovare alle capacità attentive. In generale, è consigliabile evitare eccessi di zuccheri semplici e caffeina, che possono creare sbalzi di energia e agitazione, privilegiando invece pasti regolari ricchi di proteine, verdure, frutta e cereali integrali.
- Strategie compensative e supporto esterno: convivere con l’ADHD significa anche imparare trucchi per aggirare le proprie difficoltà. Ad esempio, l’uso di timer o sveglie (la cosiddetta tecnica del pomodoro, con intervalli di 25 minuti di lavoro concentrato e 5 di pausa) aiuta molti studenti a non perdere la nozione del tempo durante lo studio. Scrivere liste di cose da fare al mattino e spuntarle man mano offre un senso di struttura e gratificazione. Può essere utile spezzare i compiti lunghi in compiti più brevi e intervallarli con brevi pause di movimento (alzarsi, stiracchiarsi, bere un bicchiere d’acqua). Chiedere aiuto è un’altra strategia intelligente: ad esempio, per un ragazzo potrebbe significare studiare in coppia con un compagno responsabile che lo aiuti a mantenere il focus; per un adulto, delegare alcuni incarichi domestici nei periodi di sovraccarico o rivolgersi a un tutor/coach organizzativo. Infine, ricordiamoci che nessuno deve affrontare l’ADHD da solo: coinvolgere la famiglia, gli amici o gruppi di supporto può fornire incoraggiamento e consigli pratici, oltre a ricordare alla persona con ADHD i propri progressi quando tende a vedere solo le difficoltà.
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